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08 mag – Tito: perché una terra dimentica il suo padre-padrone

di Paolo Rumiz su La Repubblica del 7 maggio 2010

Un puttaniere, un brigante, un impostore. Il diavolo in persona. Trent´anni dopo la sua morte – 4 maggio 1980 – Tito e ciò che resta della sua leggenda sono fatti a pezzi. Quello che fu il suo Paese, ora diviso in nazioni sommerse di debiti, lo rinnega. Accade persino in Bosnia, sulle montagne dove nacque il mito partigiano. Accade anche in Serbia, pur macerata da una strisciante Jugonostalgija. E succede soprattutto a Belgrado, l´ex capitale, epicentro della dissoluzione esplosa dieci anni dopo la morte del padre padrone. I pellegrinaggi di massa alla tomba marmorea nella «casa dei fiori» nel quartiere di Dedinje sono finiti, in Serbia alcune statue cominciano essere tolte dalle piazze, le vie a lui intitolate cambiano nome e la vedova ottantacinquenne Jovanka langue dimenticata in un condominio. Josip Broz, chi era costui? Ma ora il potere non si limita più a ignorarlo, ne incoraggia la denigrazione.

«La lezione della guerra non è servita», sorride Milutin Jovanovic, serbo che studia Scienze politiche in Italia ed è nato a Nis durante il conflitto balcanico. «Trionfa tutto ciò che lui aveva bandito: vessilli, identità regressive, fascismi». Ora i giornali dedicano paginate a Draza Mihajlovic (acerrimo nemico di Tito e capo dei nazionalisti serbi nella Seconda guerra mondiale, ndr) e i pellegrinaggi si fanno semmai sulla tomba di Slobodan Milosevic, l´ex leader morto in prigione all´Aja. La gente va lì, con candele accese, nella casa di Pozarevac sul Danubio a rendere omaggio a colui che ha trascinato la Serbia nel disastro. Ancora Milutin: «Pare quello che accade in Italia con Garibaldi. Anche il nostro mito unitario è denigrato con argomenti clericali e separatisti… Lo accusano di avere odiato i serbi e di aver voluto unire ciò che era impossibile tenere assieme». Sei nazionalità, quattro religioni, tre alfabeti e una decina di lingue diverse. Tra il popolo è facile che torni il rimpianto per i tempi «in cui Dio camminava sulla terra», quelli in cui la Jugoslavia era l´unico Paese comunista sinonimo di pacchia. «La classe media è sparita, e i vecchi si sono visti portar via tutto dai tempi nuovi, dunque vivono Tito con rimpianto», spiega lo scrittore Dragan Velikic, i cui libri (prossimamente La finestra russa) sono entrati da un anno nel mercato italiano. «Ma per i teenager quello è solo un nome da parole crociate».

«Frammenti da un passato migliore», così il settimanale liberale Vreme titola un reportage sulla memoria dei vecchi tempi. Ma la denigrazione del padre fondatore della Slavia del Sud parte dalla nuova nomenklatura e non dal popolo. «Era un croato», dicono, e non importa se era vissuto tanto a Belgrado. Il resto discende da questo peccato etnico: era un «satrapo pieno di ville», un adoratore dei «sigari costosi». Un amante delle «massaggiatrici», che allora non si chiamavano ancora escort. C´è chi ne mette in discussione persino l´anagrafe, gli imputa di essere un falsario, un mentitore. Tito non era il figlio di un contadino croato e di una slovena, ma – dicono – un polacco immigrato che aveva cambiato identità. A suffragio di questa ipotesi si cita la sua perfetta conoscenza della lingua polacca, e il certificato di morte di un altro Josip Broz (quello vero) morto impallinato nei Carpazi con la divisa austro-ungarica nella Grande Guerra. Certificato sospetto, che pare sia stato rinvenuto nella casa di Tito solo dopo la sua morte. Nemmeno Jovanka, la moglie, va più sulla tomba di lui, e non per questioni anagrafiche. Ha dichiarato al giornale Politika: «Ho paura di incontrare qualche funzionario statale che mi imponga di firmare una carta con la quale lasciare i miei ultimi averi allo Stato». Dopo queste parole, apriti cielo: si è ricominciato a fantasticare su un tesoro di due miliardi di dollari lasciato da Tito in una banca svizzera, e sul fatto che a Jovanka sarebbe tuttora negato il passaporto proprio per impedirle di metterci le mani.

Delle contestazioni serie alla figura dello statista non parla più nessuno. Della burocrazia pletorica messa sotto accusa dal suo delfino ribelle Milovan Djilas. Del fatto che egli accrebbe le divisioni interne della Jugoslavia per rafforzare il potere personale, oppure dell´aberrante sistema di voto nel gioco delle sei repubbliche federate, che sembrava costruito apposta – osserva lo storico Predrag Markovic – per paralizzare il Paese. E nemmeno delle vendette postbelliche compiute in suo nome gettandone le vittime nelle foibe, dalla frontiera italiana a quella greca.

Tito. La cricca che tiene la Serbia in ostaggio ha paura del suo nome e persino della sua ombra; e da qualche tempo l´ombra si è rifatta viva proprio a Belgrado, attraverso il nipote omonimo Josip, 63 anni, figlio di Zarko, il primogenito del maresciallo-presidente. Da quando il nuovo Broz, chiamato Joska, ha deciso di entrare in politica e raccogliere le diecimila firme necessarie a presentarsi alle prossime elezioni, è scattato l´ostruzionismo.
Quello che Tito junior rappresenta e dice dà fastidio, in un Paese col quindici per cento di disoccupati. La Serbia, ripete Joska, ha triplicato il debito proprio da quando sono partite le privatizzazioni e le cosiddette riforme democratiche. «Ogni giorno ricevo incoraggiamenti da mezza Jugoslavia – ha detto Broz a Radio Serbia – e i giovani stanno avvicinandosi al mio partito». Nel programma, un secco «niet» sia all´Europa sia alla Nato.
Negli spazi di Facebook Tito sopravvive, ma nei dibattiti dei giovani, divisi tra odio e amore; uno dei siti denuncia 30mila iscritti. Negli indirizzi internet la «yu» è scomparsa solo pochi mesi fa e in Serbia ci sono ancora aziende di nome Jugoservis, Jugostroj o Jugostil. E parecchi alberghi Jugoslavija.

A Sarajevo esiste un caffè Tito, con elmetti che fanno da portalampade, appesi al soffitto. L´orologio è fermo sull´ora e il giorno della morte di Lui, 03.05 del 04.05.80, ma per i ragazzi attaccati al bancone quel numero è solo una cabala del tempo che fu. «Mismo Walter», noi siamo tutti Walter, inneggiavano solo 18 anni fa altri giovani sarajevesi per fermare la guerra etnica in arrivo, ripetendo uno dei nomi clandestini di Tito partigiano. Erano oltre centomila, e avevano invaso la città con le bandiere della pace. Oggi è tutto cambiato. L´antifascismo si è ridotto a rituale ripetitivo e il bunker di Tito a sud di Sarajevo sarà aperto ai turisti per necessità di cassa. Anche qui, celebrazioni in tono minore per l´uomo che elesse la Bosnia a roccaforte della Resistenza.

Solo in Croazia, dove Josip Broz è nato, tira un´aria diversa. La Tv gli ha dedicato dodici puntate con la sua storia, dalla nascita nel villaggio di Kumrovac fino alla morte a Lubiana; poi c´è una grande rassegna retrospettiva di film jugoslavi, inclusi quelli banditi dal regime di Tito, che ha visto un successone di pubblico e la partecipazione di tutte le ex repubbliche federate. «Tito, wanted», stava scritto ironicamente sullo Jutarnji List: ricercate «colui che ha dato lavoro agli operai e cultura alla gente». Le isole Brioni, davanti a Pola, dove il Capo passava le vacanze in compagnia dei grandi della Terra o famosi attori come Richard Burton e Liz Taylor, sono in vendita, ma il museo e la villa di Tito rimangono monumento nazionale. A Kumrovac la casa natale del presidente resta un´attrazione all´interno di un villaggio restaurato che Zagabria ha trasformato in museo all´aperto. In paese le sirene sono suonate anche stavolta, alle 3.05, come trent´anni fa, a ricordare il momento in cui la Jugoslavia rimase vedova del padre fondatore.

 

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