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02 feb – I fondi italiani a Trieste durante il Governo militare alleato

da Il Piccolo del 2 febbraio 2011

Nel periodo tra il 1946 e il ’47 l’esodo costò al governo italiano 710 milioni di lire per Pola, 400 milioni per Trieste, 71 per Gorizia e 17 per Udine. Nell’anno 1947-48 le spese per Pola scesero a 175 milioni, quelle per Trieste invece salirono a 700. L’erogazione di fondi cominciò a calare nel 1950, quando Trieste intascò solo 338 milioni. Ma complessivamente, tra il 1946 e il 1949 i partiti politici italiani ricevettero dal governo italiano 1,324 miliardi di lire. Negli anni del dopoguerra, fino al ritorno di Trieste all’Italia nel 1954, un fiume di denaro si riversò dalle casse statali italiane sulla Venezia Giulia ancora in bilico tra Zona A e Zona B, con lo scopo dichiarato di intervenire in più settori: finanziare partiti, giornali associazioni e informatori, gestire l’esodo degli istriani, fiumani e dalmati secondo criteri prevalentemente politici, indirizzare la stampa e irrobustrie l’apparato propagandistico pro-Italia, organizzare e amministrare i rapporti con il governo degli anglo-americani, monitorare la presenza jugoslava a Trieste.

Che negli anni dell’esodo e del Governo militare alleato (Gma) lo Stato italiano avesse effettuato sforzi immani, politici e finanziari, per sostenere l’italianità di Trieste e garantirne il ritorno alla madrepatria è cosa nota. Ciò che non si sapeva era esattamente come, quanto e a chi era stato dato il denaro uscito dalla casse statali. E non si sapeva per il semplice motivo che tutta la documentazione relativa a questa ampia e complessa attività era data per persa. Nell’arco di decenni, tutti gli studiosi e gli storici che si avventuravano negli archivi alla ricerca di dati per approfondire questioni relative alla situazione politica ed economica di Trieste durante il periodo del Gma, si trovavano spesso ad aprire faldoni vuoti in cui c’era un unico biglietto con la medesima scritta, sempre la stessa: ”Trasferito all’Ufficio per le zone di confine”.

L’Uzc, come viene chiamato in sigla dagli studiosi, era un ufficio costituito presso la Presidenza del Consiglio sotto il diretto controllo del sottosegretario Giulio Andreotti, che funzionò dal 1947 al 1954 come ”cabina di regia” per tutto quanto atteneva appunto alle due aree frontaliere allora ribollenti: la Venezia Giulia e l’Alto Adige. Finanziamenti, iniziative politiche ma anche culturali, informative di polizia e carabinieri, controllo e monitoraggio della stampa, questioni economiche, insomma tutto ciò che era la vita in quei territori dove le ferite della guerra erano ancora aperte e doloranti veniva gestito dall’Ufficio zone di confine, braccio operativo del governo italiano.

Ora, la memoria scritta di tutta questa attività, cioè l’intero archivio dell’Uzc, era dato per disperso. Invano, e a lungo, gli studiosi hanno cercato le tracce di quell’organismo di cui si conosceva l’esistenza, ma che sembrava non aver lasciato alcuna evidenza del suo lavoro, tanto da diventare quasi un mito fra gli storici di mestiere. Finché, un paio d’anni fa, nel gigantesco deposito del Centro polifunzionale di Castelnuovo di Porto, in provincia di Roma, una specie di enorme scatolone di duemila metri quadrati dove la burocrazia nazionale ha riversato un coacervo di archivi pubblici (tra i quali quelli del ministero dell’Economia, della Presidenza del Consigio dei ministri e della Camera dei deputati), occhi attenti hanno rivelato fra 10mila faldoni assiepati nelle scaffalature gli indizi dell’archivio scomparso: buste con particolari numeri e codifiche non ancora inventariate. Come archeologi che trovano resti di un animale ritenuto leggendario, gli archivisti hanno letteralmente scavato tra le carte spesso rovinate da anni di incuria e traslochi arrangiati, ricostruendo busta dopo busta il fondo perduto prima virtualmente al computer, e poi materialmente, tanto da arrivare alla redazione di un accurato inventario, mappa indispensabile a ogni cacciatore di fatti del passato. E alla fine eccola lì la memoria scritta dei rapporti tra lo Stato italiano e la Venezia Giulia nel periodo più difficile di queste terre. Per gli storici è stato come assistere a un’alba radiosa dopo una notte di nebbia, e subito si sono precipitati a interrogare il testimone ritrovato.

Un primo risultato dei sondaggi effettuati in questo mare di documenti è ora contemplato nel numero 2, anno 2010, della rivista ”Qualestoria” edita dall’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, da poco data alle stampe. Intitolato ”Uzc – Ufficio per le zone di confine” (pagg. 137, euro 15,00) e curato da Raoul Pupo, il numero monografico della rivista contiene alcuni saggi sul fondo archivistico ritrovato (più altri articoli) a firma di una pattuglia di studiosi tra cui, oltre allo stesso Raoul Pupo, Maria Maione, Silvia Re, Carlotta Cardon, Andrea Di Michele, Giorgio Mezzalira, Diego D’Amelio, Roberto Spazzali, Silva Bon, Tristano Matta. La monografia sarà presentata oggi, alle 17, nella Sala conferenze della Biblioteca Statale in Largo Papa Giovanni XXIII, 6, da Pupo, D’Amelio e Spazzali.

Come spiega il curatore nell’introduzione al fascicolo, «abbiamo dato vita ad un ampio dossier, contenente vuoi indicazioni archivistiche, vuoi alcuni cenni sui nodi problematici la cui analisi può ricevere nuovo impulso in virtù dell’inedita documentazione oggi disponibile». Si scopre così, per esempio, la grande preoccupazione del governo italiano verso l’attività del clero sloveno nella Diocesi di Gorizia e nelle Valli del Natisone, con diffusi timori per la «politica panslavista» che i sacerdoti sloveni avrebbero potuto alimentare tra gli sloveni non comunisti. E si scopre come «viva attenzione venne manifestata anche per i movimenti immobiliari nelle zone di campagna, sul carso e sul Collio, seguendo puntualmente i movimenti catastali, con particolare riferimento ai rischi di ”inflitrazione di elementi slavi nel corridoio Trieste-Monfalcone”».

Ancora, emerge con chiarezza come «in un clima euforico e spendereccio», Roma finanziò copiosamente i giornali italiani a Trieste, mentre il funzionario dell’Uzc appositamente inviato a Trieste nel 1947, Francesco D’Arcais, stilava il piano di ripartizione politica e finanziaria della stampa locale: la ”Voce Libera” al «raggruppamento politico delle sinistre» (Partito repubblicano italiano d’azione e Partito socialista della Venezia Giulia), ”Le ultimissime” alla Democrazia cristiana, il ”Messeggero Veneto” alle destre, ma «da verificare»: la sovvenzione di quattro milioni di lire doveva essere sospesa in attesa di un chiarimento politico sulla posizione del giornale. Discorso a parte per il ”Giornale di Trieste”, che dopo il ’54 avrebbe ripreso la storica testata de ”Il Piccolo”, la cui proprietà Alessi-Riccardi dava grande affidamento all’Ufficio zone di confine specie nella «promessa di continuare a sostenere lealmente la linea della poltica estera degasperiana e, in campagna elettorale, la tattica adottata dalla Dc».

Le carte ritrovate del fondo archivistico dell’Uzc permettono dunque di fare luce su molti punti oscuri della storia di Trieste fra il ’47 e il ’54, di riempire vuoti, di capire meglio i rapporti e gli umori che legavano la città allo Stato italiano. Umori spesso accesi, a volte contradditori se non apertamente infastiditi. Come quando, di fronte all’evidenza che l’Ufficio zone di confine solo nell’esercizio 1948-1949 aveva speso per la stampa triestina le bella cifra di 318 milioni di lire, Andreotti non nascose – come scrisse – il «rammarico di vedere che tutte le questioni di Trieste sono sempre prospettate senza che si preveda l’esborso di un solo centesimo dalle pur capaci tasche di tanti patrioti locali». E nel 1954, una volta riaccolta Trieste fra le braccia della madrepatria, con la soppressione dell’Ufficio zone di confine e il drastico ridimensionamento dei contributi statali la musica sarebbe decisamente cambiata.

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