Il Leone di San Marco: simbolo nobile di identità culturale degli italiani delle terre istriane e dalmate

A cura di Marino Micich
Direttore Archivio Museo storico di Fiume (Roma)

Il Leone di San Marco fu elevato dagli esuli giuliano-dalmati a nobile simbolo identitario nel corso del doloroso esodo, avvenuto dopo l’occupazione jugoslava delle terre istriane, fiumane e dalmate. Ricordare la storia di tale emblema oggi, 25 aprile, festa di San Marco, significa voler testimoniare la persistenza di un’eredità storica e culturale, mantenutasi fedelmente in esilio ai fini di un rinnovato dialogo europeo con le terre di origine.


Origini e simbologia


Il virtuoso trinomio Leone-San Marco-Venezia, che si ritrova in parte nell’espressione dialettale “San Marco in forma de lion”, si è realizzato dopo un lungo e complesso processo storico. La corrispondenza tra la figura del leone e San Marco la si deve al dalmata San Girolamo (Stridone 347-Betlemme 419 d.C.), autore de La Vulgata, la prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia. Fu egli ad identificare nei suoi studi la fiera con l’evangelista Marco. Il rapporto di San Marco con Venezia, in base a una leggenda sorta nel VI secolo e codificata solo nel Trecento, sorse quando l’evangelista, trovandosi a sostare nella zona lagunare durante un viaggio da Aquileia a Roma, fu visitato in sogno da un angelo, che lo salutò dicendogli in latino: “Pax tibi Marce evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum” (Pace a te, o Marco evangelista mio, qui riposerà il tuo corpo). Le spoglie dell’evangelista furono traslate da Alessandria d’Egitto nell’828 e dopo varie vicissitudini giunsero a Venezia. Nella città lagunare fu presto eretto un tempio in onore di San Marco, che ne divenne il santo patrono. Un primo gonfalone di Venezia con il leone alato fu realizzato nel 1202, ma solo intorno al 1260 tale simbolo iniziò ad affermarsi definitivamente quale emblema politico della Repubblica di San Marco. Secondo lo storico Alberto Rizzi, autore di importanti studi sul leone marciano, esistevano oltre cento varianti della fiera, raffigurate su materiale scultoreo o pittorico. Tuttavia, le tipologie del Leone di San Marco che più si affermarono furono principalmente due: quella del “leone andante” (araldicamente detto passante) e quella “in moleca” (col tronco uscente dalle onde). In ambedue le raffigurazioni una zampa o branca anteriore della fiera regge il Vangelo. Inoltre, alcuni leoni marciani recano il tomo dell’evangeliario chiuso e altri aperto. Il libro aperto sembra sia stato adottato nei territori veneti che si trovavano in zona di pace, mentre quello chiuso nei territori di confine soggetti al pericolo di guerra. Tuttavia, il significato del Vangelo, chiuso o aperto, non è stato ancora ben chiarito dai ricercatori. Esiste anche una terza tipologia, quella del leone alato impugnante la spada, connesso alla guerra e alla giustizia, che troviamo raffigurato nello stemma attuale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.

I leoni alati in Istria e Dalmazia, dall’esaltazione alla leontoclastia


L’immagine del leone andante, nelle sue varie raffigurazioni, assume un rilevante valore iconografico per la presenza nel simbolo della terra e dell’acqua, in chiara connessione col dominio statale veneziano, che era diviso amministrativamente in “Stato da Terra” e in “Stato da Mar”. Innumerevoli studi hanno posto in rilievo l’interessante simbiosi veneto-istriano-dalmata che si formò nel corso di un millennio, esprimendosi negli usi, nella lingua e nella cultura degli italiani dell’Adriatico orientale. Un solido senso di appartenenza che tradizionalmente si ritrova anche nella famosa cerimonia del giuramento di Perasto (23 agosto 1797), passata alla storia col motto “Ti co nu, nu co ti”, frase tratta dal celebre discorso del conte veneto Giuseppe Viscovich. Durante tale cerimonia il gonfalone di San Marco fu tumulato con immenso dolore nell’altare del duomo cittadino. Nonostante la caduta di Venezia e la breve parentesi napoleonica, l’italianità degli istriani e dei dalmati (sotto il dominio austroungarico dal 1814 al 1918) si mantenne sempre intatta e fidente verso Venezia.


Il leone andante è sicuramente il simbolo che ha trovato più ampia raffigurazione nel corso dei secoli in Istria e in Dalmazia. Per quanto erroneamente si creda, l’Istria, a differenza della Dalmazia, non fu mai omologata allo “Stato da Mar”, ma a quello di “Terra”. Nel corso del tempo, purtroppo, le raffigurazioni del leone marciano furono oggetto di distruzione in seguito a determinate vicende politiche della Repubblica veneta. Fortunatamente, a differenza del Veneto e della Dalmazia, in Istria i leoni non subirono grandi distruzioni, pervenendo fino ai nostri giorni piuttosto integri e in buona quantità numerica. La leontoclastia fu un fenomeno che si diffuse nel corso del tempo in tre ondate. La prima ondata distruttiva ci fu durante la guerra della Lega di Cambrai (1509-1516), con l’invasione delle terre venete da parte degli eserciti francesi e imperiali; la seconda avvenne ad opera dei napoleonici e dei giacobini, ma in questi casi sia l’Istria sia la Dalmazia rimasero fuori dal conflitto e per tale motivo ben pochi leoni furono rimossi; la terza distruzione, che colpì prevalentemente i leoni marciani presenti in Dalmazia, ci fu, a più riprese, tra il 1920 e il 1953 ad opera dei nazionalisti jugoslavi. Oggi, in Istria si trovano la maggior parte delle sculture del leone presenti nell’intero Dominio Veneto. A Capodistria, denominata un tempo l’Atene dell’Istria per le sue prestigiose accademie e i suoi circoli culturali, si contano una trentina di leoni veneti; ve ne sono anche, meno numerosi, a Parenzo, Rovigno, Umago, Montona e in altre località istriane più piccole. Nella città di Fiume, che non appartenne mai a Venezia, il leone alato fu esaltato quale simbolo di italianità solo durante la breve parentesi dannunziana e durante il periodo fascista. Il Leone di San Marco, posto sulla riva di Fiume dopo il 1924 per celebrare l’annessione della città all’Italia, fu purtroppo distrutto durante i bombardamenti aerei avvenuti nel corso della Seconda guerra mondiale. La popolazione fiumana subì invece da parte jugoslava la distruzione dell’aquila bicipite, simbolo storico fiumano per eccellenza, posta ai primi del Novecento sulla sommità della Torre Civica. Fortunatamente, nel 2017, le autorità comunali croate, rendendo giustizia alla storia, l’hanno ricollocata rispettando il modello originario.

Il leone alato presente nello stemma dell’ANVGD, simbolo di italianità


L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), che vanta tramite i suoi comitati e le sue delegazioni un’ampia diffusione sul territorio nazionale, sorse nel secondo dopoguerra, quando ormai l’esodo della popolazione italiana, causato dalla politica repressiva del regime comunista jugoslavo, diventò un enorme fiume in piena. Dopo la firma dell’iniquo Trattato di pace avvenuta a Parigi il 10 febbraio 1947, iniziarono gli accordi tra i due Comitati giuliani principali, quelli di Roma e Milano, sorti in pieno conflitto mondiale tra il 1944 e i primi mesi del 1945. Questi due importanti comitati accolsero poco dopo le leghe dalmata, fiumana, istriana e triestino-goriziana per poi dare vita, nel corso del I Congresso Nazionale, tenutosi a Roma il 22 giugno del 1948, all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Zara (ANVGZ). Il primo presidente eletto in quell’occasione fu Padre Alfonso Orlini, esule da Cherso. Al II Congresso Nazionale dell’ANVGZ di Roma, tenutosi il 28 e il 29 ottobre 1949, fu assunto il nuovo nome di Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), comprendente ormai ben 80 comitati provinciali.
La ricca simbologia dello stemma dell’ANVGD, con al centro l’alabarda triestina, in quel periodo non si fregiò del leone marciano, anche se la sua immagine non mancava di essere presente nelle pagine di Difesa Adriatica, poiché il legame con Venezia rimaneva sempre molto forte. Il leone alato veniva inteso dagli esuli come una sorta di araba fenice, pronta sempre a risorgere dalle sue ceneri. Riaffermare tale emblema voleva essere una orgogliosa risposta identitaria contro quella sciagurata opera di distruzione dei leoni veneti condotta in Dalmazia dalle autorità comuniste jugoslave. A Zara, nel 1953, il fiero e monumentale leone marciano andante, posto in alto sulla Porta di Terraferma sin dal Cinquecento su progetto dell’architetto veneziano Michele Sanmicheli, venne sfregiato e semidistrutto durate una manifestazione organizzata dai titini per rivendicare la città di Trieste alla Jugoslavia. Fu questa violenza iconoclasta slava contro i leoni marciani in Dalmazia che spinse ancor più gli esuli giuliano-dalmati a vedere nel Leone di San Marco un simbolo di fede e di italianità. L’ANVGD scelse proprio in quel periodo di porre il leone alato impugnante la spada, simbolo di verità e giustizia, all’apice del proprio stemma sociale, comprendente i simboli di Fiume, Dalmazia, Istria, Gorizia e Trieste. Oltre a rappresentare il secolare legame identitario delle terre istriane e dalmate con Venezia, il leone “armato” voleva denunciare l’ingiustizia subita dagli esuli giuliano-dalmati in tempo di pace, aggravata per giunta da un lungo e strumentale silenzio sulla loro tragedia umana. Infatti, in un’Italia uscita malridotta dal conflitto mondiale, si assisteva a una forte rimozione degli ideali nazionali e patriottici, che lo storico Ernesto Galli della Loggia seppe ben descrivere nel suo famoso saggio “La morte della patria” apparso nel 1996. Va segnalato che, attualmente, nel nuovo clima di convivenza etnica, c’è stata una recente opera di restauro in Istria e in Dalmazia di alcuni leoni marciani, tra i quali figura proprio quello di Zara posto sulla Porta di Terraferma, semidistrutto nel 1953. Infine, ho piacere di ricordare che un bel leone marciano, dono della famiglia dei dogi Foscari alla comunità esule del Quartiere giuliano-dalmata di Roma, ha trovato posto all’ingresso della chiesa di San Marco Evangelista, dopo un restauro promosso dal Comitato provinciale di Roma dell’ANVGD, a testimoniare quell’antico senso di appartenenza e dedizione a una cultura che l’ingiustizia della storia non è riuscita a cancellare.

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